Il cuore di Ponte Milvio

I monumenti hanno un’anima? Se è vero che hanno un’anima – enigmatico afflato vitale che ci attrae a sé o, scostante, ci inquieta, fino a lasciarci più o meno indifferenti quando per varie ragioni langue e si spegne –, allora un ponte, un antico ponte pieno di segni e cicatrici di una storia bimillenaria di flussi e passaggi continui, di duri scontri, di fratture e ricuciture, sarà di certo a maggior ragione pervaso da quel “vento” che dà senso all’etimologia greca di anima (ànemos), e che non può non ‘toccare’ l’anima umana: sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt.
Dinanzi al ponte della rocca di Spoleto, grandeggiante nell’incerta luce crepuscolare, Goethe sentì lo spirito di “una seconda natura che opera a fini civili” (“Eine zweite Natur, die zu buergerlichen Zwecken handelt”). Un gigantesco manufatto come un viadotto o un ponte ha un’“anima” e una “voce”: altrimenti non ‘sentiremmo’ quel non so che formicolare nel cuore, quell’impressione di uno strano bisbiglio frammisto al rumore delle acque e dei nostri passi, percorrendo a piedi un ponte qualsiasi. Quella flebile voce, sussurrata nel vento, parla su registri esterni all’arco della comune udibilità dei suoni, ma con una sotterranea intensità, un’inspiegabile capacità di turbare, che arrivano a travalicare intensità ed effetti espressivi di tante voci sonore, benché chiare e distinte.
La figura del cuore – simbolo che dalla notte dei tempi detiene sopra ogni altro il potere assoluto di significare la voce dell’anima – è una scelta, nell’intendimento di Marisa Marconi, còlta naturalmente nell’essenza storica, culturale e sociale del Ponte Milvio, sede dell’esposizione collettiva che la vede impegnata con altri artisti della web Comunity del Faro Verde. Cuore che nel contesto di un mezzo di scambio e di incontro come un ponte ha il ruolo primario di organo peculiare per una comune, universale lingua di dialogo. E in tal senso può bene adattarsi come emblematica la quartina di uno dei Du’ sonetti pe Lluscia di Belli: Ma ffa’ la pasce tua: nun c’intennemo? / Te parlassi mó in lingua tramontana! / Fa’ la tu’ pace, dico, e discurremo / cor core in mano, uperto, a la romana.
Ma il doppio cuore (quello immateriale dipinto come emblema araldico, ritto sulla punta, e l’altro poggiato a terra, di concreta materia plastica) è posto nel ‘sacro’, vetusto monumento della storia di Roma, come un cuore votivo in un tempio, a riscontro del quale c’è quello reale e pulsante, ma invisibile, di un donatore, di una famiglia, di un gruppo. A Ponte Milvio il cuore votivo ha dinanzi a sé, invece, l’umanità inquieta di oggi, confusa, insicura, impaurita, impreparata al dialogo e alla comprensione reciproca. Eppure, fuori delle mura dell’odierna Babele delle arti, c’è sempre un infinito territorio percorribile da un’arte che voglia parlare un linguaggio alla portata di tutti, chiaro e semplice come quello di un cuore sincero. “I nostri vecchi artisti facevano spontaneamente dell’arte – osservava un secolo fa Carlo Dossi nelle sue Note azzurre –, non ne falsificavano. Essi la traevano dal cuore, dove si accumulava a loro stessa insaputa”. Che sorprese può riservare – fra tanta sconcertante insensibilità – il dimenticato serbatoio.

CRISTIANO MARCHEGIANI
Gennaio 2008

"Il cuore di ponte Milvio"
istallazione con cuori
di gesso policromi e quadro di legno